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E’ Loris Vescovo il segreto meglio custodito della canzone d’autore italiana che scieglie anche l’uso del dialetto (in senso ovviamente rovesciato rispetto al becerismo leghista)? Probabilmente. Il friulano dottore in agronomia, con una voce che sembra il calco angelico di quelle di Nick Drake e Piers Faccini, scrive canzone diabolicamente belle e intense. Folk blues per menti prensili, Penisolâti (nel senso di “isolate nella Penisola” e’ il quarto lavoro (Nota Records), dieci storie struggenti, ironiche, perfette sul cattivo vivere che ci assedia. E’ Loris Vescovo il segreto meglio custodito della canzone d’autore italiana che scieglie anche l’uso del dialetto (in senso ovviamente rovesciato rispetto al becerismo leghista)? Probabilmente. Il friulano dottore in agronomia, con una voce che sembra il calco angelico di quelle di Nick Drake e Piers Faccini, scrive canzone diabolicamente belle e intense. Folk blues per menti prensili, Penisolâti (nel senso di “isolate nella Penisola” e’ il quarto lavoro (Nota Records), dieci storie struggenti, ironiche, perfette sul cattivo vivere che ci assedia.

Guido Festinese

 

Penisolâti. È un cd di Loris Vescovo, il quarto in quindici anni, ed è uscito da poco. Avevo segnalato il suo primo lavoro “Doi oms e une puarte” e il terzo “Borderline”  facendo una fatica bestia a trattenere i superlativi, così come faccio fatica a tenerli al guinzaglio anche adesso. Ed ecco che li sgancio subito: è un lavoro meraviglioso, magnetico, sorprendente. E infatti il primo ascolto mi ha proprio preso di sorpresa e mi ha disorientato, così quando è finita l’ultima canzone ho schiacciato ancora il tasto play e me lo sono riascoltato subito. Ma anche questo secondo ascolto e quelli dei giorni successivi mi hanno dato sempre un certo spaesamento. Chissà perché mi aspettavo da Loris roba differente, forse per via di una vecchia idea che mi ero fatto di lui e che mi era rimasta in testa, non saprei. Dagli altoparlanti escono invece nuvole contorte, più che canzoni sono congegni strani, sono trappole per le orecchie. Canzoni che sembrano una cosa, poi le vai a riascoltare e resti un po’ così perché sembra sia un altro disco, e invece no. Che strano. E questa sensazione si ripete all’interno dell’album come se le canzoni invece che restare ferme a farsi leggere dal laser si spostassero, cambiassero posizione, si muovessero irrequiete come scolari indisciplinati decisi a non farsi fermare con un sorriso ipocrita appeso in faccia nell’immobilità della foto di fine anno.
All’inizio, ma solo per tratti brevi, sembra quasi di essere finiti indietro nel tempo, al Loris Vescovo di una volta, a quel misto impalpabile vagamente Neil Young e vagamente Nick Drake che caratterizzava le sue prime cose. Ma dura poco, dicevo, molto presto la riconoscibilità folk svanisce e le vaghe somiglianze pure, e il panorama si fa complicato. L’ascolto si fa salita e diviene via d’alta quota. Contribuisce per certo a questo dislivello il gruppo di musicisti che gli si sono raccolti attorno: ritroviamo il Leo Virgili ed il Simone Serafini del passato recente, adesso anche Ivan Ciccarelli e Mark Harris a gettare diserbante raffinato contro il silenzio. Ma la voce è e resta quella, bruna e ruvida, sospesa in bilico fra terra ed acqua ed amante di entrambe, perennemente indecisa a prendere il volo, ispida come un gatto boscariolo che non si fa avvicinare.
La copertina ed il libretto offrono un’immagine insolita dell’Italia, e ben si relazionano con la visione del mondo offerta dall’autore: nodosa di dubbi come certi alberi vecchissimi, malinconica come certe strofe novembrine di Biagio Marin, agitata e sottosopra come uno sberleffo anarchico. Sono canzoni da sbucciare, ognuna ha un certo spessore da intaccare, bisogna scavare, fare fatica e sporcarsi le mani, talvolta bisogna usare il coltello. Difficile raccontare l’acido di certe strofe, paragonabile al brivido metallico che lascia sulla lingua la lama che ha appena tagliato uno dei limoni migliori.

Marco Pandin

 

Dice Beppe Severgnini (in veste di media guru) che i piu’ interessati alle cronache da Donetsk e dintorni sono quelli con la badante ucraina; e che i venti di Guerra che spirano di la’ destabilizzano molti ménage domestici di qua; e di come sarebbe questo il pezzo da scrivere. Be’, un pezzo esiste: una canzone dal nuovo album di questo cantautore da Trivignano Udinese:  Penisolâti. Che canta di noi in friulano stretto con traduzioni a fronte. Sforzi premiati da ballate borderline, canti da villaggi sperduti, un neofolk rarefatto con orecchie e occhi puntati verso est.

Pier  Andrea Canei

 

C’è un friulano ed è un grande con un grande album. Loris Vescovo con “Penisolati”, una canzone che vale un album da sola. Penisolati siamo noi italiani, alla deriva dal Continente a cui siamo incollati (e separati) dalle Alpi. Il disco precedente di Loris era “Bordeline”, confine, e qui ancora si parla di storie di confine: le nostre, quelle italiane, con un legame con il territorio, ma con un discorso complessivo che va oltre il Friuli. “Penisolati”, la canzone, è un valzerino sghembo che, una volta creatosi uno spazio nella testa, non lo molla più

Giorgio Maimone

 

Dal Friuli arriva Penisolâti del quarantatreenne Loris Vescovo, cantautore sensibile al richiamo e alle malie di quella terra: suoni e parole. In una tramatura etnocountry non priva di accenti jazzcompatibili s’insinua una vocalita’ diafana, incruenta e fascinosa, che attraversa dieci pezzi (un paio anche in italiano) costruiti sul tema del distacco e dell’isolamento (anzi: penisolamento). Non mancano voci colte sul campo e strumenti dalla fragranza della ghironda, chitarre ben educate e rigogliosi ottoni, il tutto felicemente carburato. La registrazione e’ di Stefano Amerio.

Bazzurro

 

Vescovo e’ un cantautore friulano che gioca con le contaminazioni, sovrapponendo l’idioma della sua terra a strutture ritmiche dell’Africa nera, abbinando il suo timbro vocale ad eleganti arrangiamenti alla Nick Drake e ammantando di brume celtiche qualche fragile melodia e affidandosi talvolta al blues nei passaggi piu’ sofferti. La morbida bossanova Vilote e l’ambientazione tex-mex alla Calexico di Velilla completano un quadro mutevole e ricco di idee, Penisolâti e’ un esperimento interessante che unisce tradizione popolare, canzone italiana ed inconsueti elementi esotici.

M. Busti

 

Penisolâti”. Fosse nato qualche centinaio di chilometri più a Nord, diciamo da qualche parte tra Norwich e Birmingham, il suo nome sarebbe nel piccolo Olimpo prezioso dei più grandi folksinger “progressivi”. Quella terra fatata abitata da gente come Nick Drake, John Martyn, Piers Faccini, anche, per usare un nome meno usurato ma sulle medesime stazioni emotive. Invece no, Loris Vescovo è friulano. Che è di per sé un giacimento culturale tanto poco conosciuto quanto magnifico. Loris Vescovo nella vita si occupa di faccende scientifiche, ma quando ha la chitarra tra le mani cava fuori acquerelli agrodolci e pieni di riferimenti incrociati che, fossero stati scritti allo scorcio dei Sessanta, sarebbero finiti dritti in un disco dei Fairport Convention. O dei Mellow Candle. Invece, come ci racconta in questo quarto disco, è un “penisolato” come tutti noi, dove l’isolamento  è più che altro quello di chi cerca di opporre le proprie motivate ma fragili forze ad un imbarbarimento culturale squassante. Troverete echi folk, elegantissime patine jazz nell’uso dei fiati, due brani dalla sua tradizione, qualche affondo ironico, perfino una deliziosa deriva blues. In due parole: un piccolo capolavoro del folk “progressivo”.

Guido Festinese

 

Per “Borderline” si erano scomodati confronti con Nick Drake (per affinità di timbro vocale, soprattutto, ma anche per certi timbri scuri) o con il Van Morrison di “Astral Weeks”; la poetica e la musicalità di “Penisolâti” sono sempre nel segno di un’incessante ricerca sonora, ricca di sfumature, com’è nella raffinata cifra stilistica di questo musicista-viaggiatore (voce, chitarra acustica, armonica, guzheng, bünkula). La continuità con l’album precedente la danno la strumentazione elettro-acustica, le presenze degli storici collaboratori Leo Virgili (trombone, chitarra elettrica), già con gli ottimi Arbe Garbe, e Simone Serafini (contrabbasso), è nuova la presenza di personalità di lusso quali Mark Harris (piano, fender, hammond) e Ivan Ciccarelli (batteria e percussioni).

Ciro De Rosa

 

Quarta prova discografica per Loris Vescovo, artista girovago in una geografia di migrazione e confini mai così stretti e mai così di casa. Ideatore meta teatrale e radiofonico, oltre che documentarista, il Nostro traccia in quest’ultimo suo studio agonie e gioie significative di terre tagliate dalla Storia con la S maiuscola. Penisolati si mette in fila indiana davanti a lavori passati quali Borderline (2008) e Stemane Ulive (2002), raccontando storie dalla s minuscola, che vivono sotto mattonelle pulsanti di passi o dentro vicoli e osterie dove germogliano i pensieri migliori. Come è risaputo c’è tutta una scena del cantautorato friulano devota al folk inglese, da quello jazzy a quello psichedelico, e anche Vescovo non si sottrae a questo destino. Ascoltandolo, si rinviene un John Martyn qua o un Nick Drake là, ma in Penisolati la vibrazione si scioglie in alcune pulsazioni bluesy, come nell’accattivante Aghe e aset, una Al trist dei nostri giorni, in canzoniere (Barcarolo) o in frammenti comedy come la title track. Partendo quindi da una sensibilità propria può magicamente capitare che un cenno madrigalesco dia la stura ad un soffice tappeto jazz (Benandanti), che la raganiza diventi funk (Recessio) o bozzetto caudillo (Vilote), che certo Messico possa rosseggiare d’Italia solo per raccontare il Ventennio (Velilla) e che la villotta declinata antifonale debba smarrirsi nel lounge fragoroso come una cateratta (Ce mai sarà).

Christian Panzano

 

Dopo Stemane ulive e Borderline – entrambi finalisti al Tenco – ecco Penisolâti, il concept album della definitiva maturazione: un lavoro, strutturato e godibile, che lo proietta nel ristretto recinto del cantautorato più consapevole e ne consolida l’immagine di un novello Nick Drake in salsa friulana, meno cupo e lirico ma più evoluto dal punto di vista compositivo, menestrello di un Friuli in oscillazione tra il tempo che fu e un momento che chissà se e quando arriverà. L’album è fatto di una serie di storie sul distacco e l’isolamento – nate da suggestioni di viaggio o memorie familiari – incastonate in un trattato di geografia fisica: laddove in Borderline la cornice era la geografia politica e il tema dominante era la marginalità. Vescovo parte con Cui Isal dal distacco dalla terra della generazione di figli dei metalmezzadri orfani del loro milieu e dei valori ai quali la modernità rende impossibile ancorarsi. BenAndanti si regge sul gioco di parole tra Badanti e Benandanti, nel raccontare la storia di un viaggio alla ricerca di un ponte che non c’è tra due culture, due epoche, due mondi. «Viaggiando in Ucraina, tra Moldavia e Mar Nero, per passare in Romania dovevamo varcare il Danubio. Un donna ci disse che un ponte per passare c’era, bastava cercare con attenzione. Lo cercammo per ore, invano. Ma in quel momento trovai una canzone». Anche la “title-track” Penisolâti viene da un esperienza in Nuova Zelanda. «Tornando – spiega Loris – mi sono reso conto che, pur circondati da altri paesi, a volte sembriamo un paese dimenticato del Pacifico, tra Tonga e le Hawaii». Sensazione apprezzabile in Val Resia, “enclave magica e arcaica” oggetto della suggestiva Aghe e asêt dove compaiono campionamenti delle voci della Valle. La zitira, strumento tipico resiano, è suonata da Giulio Venier nella strampalata Recessio, storia di un resiano che si ubriaca e viene rimpatriato perché scambiato per straniero. Oltre a Venier, i musicisti che affiancano Vescovo sono Leo Virgili (trombone, chitarra elettrica), Mark Baldwin Harris (piano), Simone Serafini (contrabbasso), Ivan Ciccarelli (batteria), Claudia Grimaz (voce), Stefen Dell’Antonio (ghironda), Mirko Cisilino (tromba) il coro La tela, gli Alpenhorn di Andrea Passoni e Giorgio Cavenago. Il libretto dell’album è tradotto in italiano e in inglese. Potrà esser compreso ovunque così il significato di un pezzo come Velilla, affresco di un’Italia passata in 50 anni dai Balilla alle veline senza crescere come compiuta democrazia. E pure l’efficace Vedrans dove Vescovo sostiene che “essere soli è sale”: “Il sale ha a che fare con il mare, è candido, ha una struttura cristallizzata, insaporisce la nostra vita, è un fertilizzante che ci fa crescere, ma a lungo andare ci fa salire la pressione, ci brucia gli occhi, ci rende assetati e ci puo’ corrodere e bruciare”. Chiusura con Ce mai sarâ, villotta di Givigliana che si cantava portando i morti in cimitero. “Negli ultimi anni se ne stanno andando via tutti. Chi verso il cimitero, chi verso la pianura, chi all’estero. Tra qualche anno non ci sarà piu’ nessuno”.

Walter Tomada

 

In Borderline ci sono strade, viaggi, partenze, percorsi strani, attese. E confusione di facce tutte un po’ uguali, anche se nessuna proprio uguale all’altra, in una folla in movimento, ciascuna in cerca di un posto nuovo dove spostarsi per ricominciare le stesse cose. Non ci sono solo persone: possono essere visite inaspettate di vecchi parenti perduti che si sono stancati di restare a guardare da dentro vecchie fotografie e ritornano indietro. Vogliono assaggiare ancora l’odore di casa, vogliono aiutare a preparare da mangiare e frugano gli angoli come giri brevi di vento in cerca di un posto dove finalmente riposare in pace.
Qui dentro ci sono storie di paesetti così piccoli che nessuna cartina e nessun tomtom ne sanno il nome e storie di gente vorace che occupa le terre altrui con le basi militari e con la musica e la televisione perché quella terra enorme divenuta loro, quell’America strappata a fucilate a quelli che ci vivevano prima, non gli basta più.
In queste canzoni il mare non è abbastanza per tenere lontane le coste: sembra di stare a guardare da una spiaggia e ritrovarsi improvvisamente capaci a camminare sull’acqua, ci si scopre capaci a volarci sopra, a spiccare un salto impossibile che porta di là, da un’altra parte inimmaginabile. In queste canzoni neanche il tempo riesce a percorrere la sua linea continua abituale, perché le cose di ieri si mescolano con quello che è adesso e con le fortune che accadranno tra poco. Anche le persone sembrano tutte fuori posto, arrivati altrove e da altrove per questioni di guerre o di fame oppure per amore, un disordine di cinesi a Parigi e di friulani emigrati in Australia a fare i tagliatori di canna da zucchero. Arrivati da un qualsiasi altrove, ma mai per caso. Qui dentro tutto è come nella realtà, si mescolano le dimensioni e gli orizzonti. Qui dentro è tutto come nei sogni, dove succede lo stesso.
Alle registrazioni collaborano Simone Serafini (contrabbasso, ogni nota un disegno in cielo), Leo Virgili (chitarre, mandolino, trombone, suona anche in Arbegarbe e ovunque ci sia da portare felicità) e la canadese Julia Kent (violoncello, sentita con Antony and the Johnsons, David Tibet, William Parker e chissà quanti altri). Stando a quanto ci racconta Loris, la linea di confine non separa mondi né visioni o ideologie o lingue, anzi è il posto dove come per magia tutte queste cose improvvisamente perdono il nero del loro contorno e sfumano, prendendo ciascuna parte qualcosa dell’altra. La musica che abita queste canzoni è un coperta colorata di citazioni e invenzioni, un ibrido sempre capace di impressionare e stupire, groviglio di melodie tradizionali e soluzioni azzardate. Il fatto che i testi siano quasi tutti in lingua friulana non ne comporta l’inaccessibilità: basta tenere aperti orecchie, mente, e il cuore.

Marco Pandin

 

Dio benedica Loris Vescovo. La sua musica baciata dalla grazia. Ha impiegato oltre tre anni per “Borderline”, terza prova solista, il songwriter e chitarrista, friulano come Lino Straulino, come Gigi Maieron. Dodici canzoni (delle quali solo una in italiano), tutte sull’idea di alterità e confine. Fusione e attrito, incontro e diversità. Borderline come linea geografica, ma anche psicologica. Vescovo, che a dieci chilometri dal confine (sloveno) è nato, indaga tutte le pieghe del bordo: “Ai Li su le Tor Eiffel”, il brano che apre splendidamente il disco sulle note della steel guitar di Leo Virgili. è incentrata sul tema dell’incomunicabiità e del narcisismo; “Canecutters”, dedicato ai tagliatori di canna emigrati in Australia, è un onirico viaggio che fluttua sulle onde noir del Nick Drake di “River Man”, con il cello di Julia Kent in bella evidenza. “Per dietro” è folk disturbato e visionario, “Caporetto (our love)”, presente anche nel reprise finale, esprime alla perfezione quel senso di sfumata instabilità del limite, che è la sostanza dell’intero lavoro. Ci fa sognare, Loris, con un “Fade in China” sorprendente, fatto con arpa cinese, cello, armonica, chitarre e contrabbasso (quest’ultimo suonato, sempre in acustico, da Simone Serafini).

Gianluca Veltri

 

Borderline, cioè sul crinale. O magari su tanti crinali: quello geografico, un Friuli brado conficcato fra Austria e Slovenia, il cui dialetto, altrettanto brado, riempie questo singolarissimo, notevole album, alternandovisi con svariate altre parlate, fra cui inglese e italiano (ma nei titoli non mancano neppure gli ideogrammi…); quello linguistico, conseguentemente; quello climatico, fra un umore squisitamente popolare, un rigore da cantautorato “alto”, morbidezze e indolenze sonore di cui diremo; quello testual-contenutistico, che attraversa storie (e scorie) onniprovenienti, storie (e scorie) di emigrati, tagliatori di canna, combattenti loro malgrado (in un’accezione quanto mai ampia), gente da baraccone (veline comprese), terremotati, bastardi di ogni stirpe e latitudine. E’ il terzo album di Loris Vescovo, uscito nel dicembre scorso e subito aggiudicatosi la Targa Deganutti come miglior produzione friulana del 2008. Ora torna d’attualità, essendo risultato tra i finalisti alle Targhe Tenco 2009. I brani capaci di ammaliare sono numerosi, ed è comunque la stretta connessione che s’instaura fra la voce e ciò che la “veste” il tratto più interessante del disco, specie per chi – la maggioranza? – dei testi non coglie che le briciole. Vescovo è cantante se vogliamo anomalo: la sua è una voce ovattata, quasi assonnata, e acidula insieme, lievemente afona, in qualche modo catartica. Più o meno alla lontana può ricordare quella di Sting, ma qua e là – anche per il clima globale – pure il soft rock dei Canned Heat e, conseguentemente, la vocalità di Bob “The Bear” Hite (per esempio in Per dietro, mentre in Un altro giro di giostra la discendenza – almeno presunta – pare virare verso morbidezze country-jazz un po’ à la Marc Ribot). In Comprà qualcosa sembra magari riandare all’incruenza di Simon & Garfunkel, ma tutto così, per dare qualche input disordinato (e magari azzardato), perché il lavoro è proprio un po’ speciale, pregno e fuori dagli schemi.

Alberto Bazzurro

 

L’incontro avvennne qualche anno fa con “Stemane Ulive”, immagini da una terra strana e instabile, il Friuli. Musica apparentemente pulita, cantautorato lineare e pieno di reference, che pure trasmetteva brividi nuovi. Forse perchè certi fantasmi evocati (es. Pasolini) sono più vivi di molti attuali viventi. “Borderline” allarga lo sguardo, sia storico che geografico. Le storie raccontate sono tante. Dall’emigrazione verso l’Australia (Canecutters) e verso “Ellis Island”, alla lettera dal fronte russo di Guido Vescovo, “Per Dietro” che raccontando tutt’altro ha lo stesso tono civile e dimesso di “Shipbuidling” (forse la scrittura nera la penna/forse la mano trema forse ritorno/forse qua noi si fa un inverno/ forse anche due qua noi -per dietro- si fa). Al terremoto (Heartquake), che “quando si deve inaugurare una casa nuova/ è un po vita un po’ morte”. Ai sotterranei di Belgrado (Underground). Al simbolo eterno di “Caporetto” e alle “Veline”, proprie quelle catodiche, la cui vicenda è narrata con apparente dolcezza tra cartiera, lenzuola ed un mare che “l’ha presa tra le sue grandi braccia”. Il confine diventa il vero ombelico di questo mondo policentrico, multiculturale, ipermediale. Disastrato. La musica entra in tutto come l’anima in un corpo e il suo tono è quello dimesso wyattiano, la scrittura arrangiata con una verve mid-jazz. In tutto ciò “Canecutters” è davvero un colpo: Nick Drake vive nella voce appena afona di Loris Vescovo e nel violoncello di Julia Kent. Quello che all’inizio appariva saudade per tristezze passate (Daviannan) o pomata sonora per dolori presenti, diventa, di ascolto in ascolto, un fuoco.

Dionisio Capuano

 

Stemane Ulive. Bizzarrie del titolo. Ma vale per le meraviglie del Friuli: vino, prosciutto e cantanti/musicisti. Strani i percorsi attraverso cui ci arriva la musica. Quasi mai rettilinei. Questo mi è arrivato per posta. Non richiesto. L’ho messo sul lettore e non l’ho ancora tolto. Non sapevo nulla di Loris Vescovo, prima di questo cd. Non ne supponevo nemmeno l’esistenza. Invece sono lieto di annunciare che Loris vescovo “è vivo e lotta insieme a noi” per la musica di qualità. È un disco dai molteplici rimandi, si può passare da alcune atmosfere alla Pino Daniele alle brume di Nick Drake. Di sicuro è un disco musicalmente ricco, scritto a una persona che ha qualcosa da dire e che ha trovato uno stramaledetto modo per dirlo bene. Tanto per cominciare è un disco in lingua friulana. Come Maieron.  Ma i paralleli finiscono qui. Come Lino Straulino, ma i paralleli non partono neanche. È evidente che in Friuli qualcosa di importante deve essere successo negli ultimi tempi, perché una terra al margine della musica di colpo si rivela ricca di talenti: oltre ai già citati ci sono anche gli Arbe Garbe e i Flk di cui nulla conosco, ma che mi garantiscono siano dei grandi a loro volta. “Friulani e/o giuliani anche Stefano Montello (co-firmatario con Straulino del cd “Sss”), Fabian Riz, Aldo Giavitto, gli ArbeGarbe, gli FLK (sinora 4 cd, uno più bello dell’altro), i Trastolons, Paolo Paolin, Ariadigolpe, Croz Sclizzaz, Zuf de Zur e andando indietro Inzirli e Detonazione… un sacco di gente che suona e suona bene” scrive Marco Pandin, uno del luogo e uno che se ne intende. Di Loris Vescovo colpisce al primo ascolto questa sensazione di pieno orchestrale. Insomma non sembra un cd fatto in casa (e peraltro non lo è). Niente a che vedere col cantautore col chitarrino. Lui la chitarra la suona e canta, ma il Cercis Quartet annovera sax, double bass, drums, percussions più Fabio Pagani addetto alle “live performance” (che su disco sfuggono). Alle spalle abbiamo ancora tromba, tuba e armonica, violoncello (forse è qui l’aggancia maggiore a Nick Drake), l’accordion, tamburica, tambura, tabla, harmonium, sitar. Più un paio di seconde voci al femminile e cori. Quanto basta a garantire una massa di “fuoco sonoro” rilevante. Le canzoni quindi si dipanano l’una dopo l’altra senza soluzione stilistica. Un’atmosfera globalmente malinconica, ma mai triste, la sensazione del tempo passato, ma difficilmente con dolore. Canzoni che anche nei titoli richiamano il lento fluire del tempo: Venerdì, domenica, aprile. Difficile stabilire un genere, come già detto: in alcuni momenti sembra di sentire il Van Morrison di “Astral Weeks”.

Giorgio Maimone

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